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Sustainable Era

Dalla quarantena alla sostenibilità

Settant’anni di Unione europea

Dalla quarantena alla sostenibilità 1
11 maggio 2020

 

Il tempo lento

Piano piano tutto rallenta. La realtà è sfuggente, anche perché afferrarla comporta uno sforzo immenso. Più ci si ferma e più lei chiede di essere addomesticata. Ma non si concede facilmente. Vuole la lentezza della profondità e la velocità dell’azione. Non accetta la superficialità. È una realtà che si ribella a sé stessa. Sembra quasi che abbia deciso di utilizzare un virus, che si trasmette fisicamente fra gli uomini con crescita esponenziale, per costringere al confino dei pensieri lenti, affinché se ne prenda coscienza. È quanto sembra suggerire la pandemia del Coronavirus, che ha costretto una buona parte dell’umanità a chiudersi in casa per sfuggire alla malattia, alla morte.

Il virus s’insinua nella cesura di un mondo che sta cambiando ai ritmi della sua capacità di propagazione. Dopo trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino e oltre dieci anni dalla grande crisi finanziaria del 2008, tante, troppe problematiche sono state nascoste sotto il tappeto della provvisorietà, delle decisioni dalla “vista corta” o, peggio, dalle non decisioni. Il vecchio mondo cerca conforto nelle sue ataviche certezze, mentre nuove dinamiche si offrono solo a chi le sa cogliere. Questa contrapposizione è la fonte delle più grandi sfide che il mondo nel suo insieme deve affrontare. Il virus sta smussando le differenze perché tutti si trovano ad affrontare un comune pericolo, una pandemia. È un po’ quello che successe ad Hans Castorp, il protagonista de La montagna incantata, di Thomas Mann[1]. L’ingegnere di Amburgo, recatosi da turista in Svizzera al sanatorio di Davos (sì, il paese del World Economic Forum) per trovare un cugino ammalato di tubercolosi, dopo aver approfittato di un primo periodo di riposo, in un Grand Hotel-ospedale, dove tutta la sua epoca è rappresentata, scopre che anche lui ha la malattia del suo tempo, la tubercolosi. Anche se ci si rifugia lassù, in un angolo privilegiato del mondo, dove i polmoni feriti dalla storia tentano di assorbire una nuova aria, la realtà è sempre lì. È pronta ad insediarsi nelle ferite prodotte dall’infezione. Ma l’inerzia, il riposo, obbligano anche a rivedere valori, paure, certezze e speranze. Quella montagna incantata torna alla memoria di chi, durante la forzata clausura in casa, scopre la necessità di capire quale è la sua patria strategica, quella che determina la riflessione e l’azione, il movimento della storia. È bombardato da telegiornali solerti che informano e mostrano il mondo chiuso in casa. Mentre tutto piano piano rallenta e poi si ferma. Prima la lontana Cina, dalla quale il virus forse è partito. Poi l’Italia, la Spagna, l’Europa, gli Stati Uniti, l’India, la Russia. Più della metà dell’umanità scopre l’emergenza sanitaria. Era abituata a vedere i mali del mondo attraverso gli occhiali dell’economia e della finanza, alla base dei paradigmi moderni di pensiero. Improvvisamente scopre che c’è altro oltre quel pensiero unico ereditato dagli anni ’90: la natura che ci manifesta il suo volto diabolico in una maniera che nessuno si sarebbe aspettato.

La fine della storia e gli Stati Uniti

Così il pensiero corre a quel grande cambiamento epocale, quando la caduta del Muro di Berlino nel 1989 aveva liberato dinamiche nuove. La storia, vista allora come contrapposizione ideologica tra marxismo e capitalismo liberale, era finita: gli Stati Uniti avevano vinto la guerra fredda. Il paradigma dominante del mondo sarebbe quindi stato quello incarnato da George Bush e da un’unica potenza mondiale dominante, gli Stati Uniti. S’intravedeva in loro la generosità dei forti, talmente forti da favorire e promuovere una grande generale apertura dei mercati, anche di quelli finanziari che apparivano come risorsa comune, fonte di flussi di sviluppo liberal-democratico del genere umano ormai libero da contrapposizioni ideologiche.

La fine della guerra fredda è stata una sorpresa della storia che non ha trovato impreparati gli Stati Uniti. Il dollaro aveva soppiantato la sterlina quale moneta di scambio del mondo dopo la Seconda guerra mondiale. Negli anni ’70 questa valuta diventa fiduciaria, staccandosi dalla concretezza della convertibilità in oro. Parallelamente, grazie all’Arabia Saudita, il biglietto verde si afferma strumento internazionale per il commercio del petrolio: una nuova fisicità s’impone, quella dei petrodollari. Se l’Inghilterra era diventata potenza dominante sulla scia della prima rivoluzione industriale mossa dal carbone, gli Stati Uniti consolidano la loro supremazia attraverso il petrolio. Avranno un grosso concorrente durante una buona parte del ‘900: l’Unione sovietica. Entrambe le due potenze erano e sono produttrici di petrolio, indipendenti dal punto di vista energetico. La bomba nucleare impediva loro lo scontro diretto, così il confronto, durante tutto il secolo scorso, si è spostato sul piano geopolitico e ideologico.

Geopolitica significava essenzialmente il controllo, o comunque l’influenza, sui paesi produttori di petrolio come pure su quelli da esso dipendenti. Chi meglio manovrava il flusso energetico aveva di fatto in mano le redini del mondo. L’ideologia, comunista o capitalista, aveva anche una connotazione spirituale, fra ateismo marxista-leninista e il riconoscimento della sottomissione a un Dio onnipotente (giudeo-cristiano, ma non in contraddizione con l’Islam), che ne rafforzava la forza aggregante, in un campo o nell’altro. Attaccato a questo mondo di oro nero c’è anche l’oro giallo. Anche se la fine della convertibilità del dollaro in oro ne ha ridotto l’importanza, resta comunque l’unico strumento finanziario riconosciuto come tale da millenni. Sarà forse un insidioso caso della storia se il virus, la pandemia, manifesta tutta la sua forza proprio quando Russia e Arabia Saudita decidono di scontrarsi in una guerra commerciale per la definizione del prezzo del petrolio. In realtà questo scontro, che inevitabilmente coinvolge anche gli Stati Uniti, rappresenta l’ultimo atto delle contraddizioni di una nuova trasformazione epocale i cui limiti erano già stati testati con violenza dalla Grande crisi finanziaria del 2008.

La Grande crisi finanziaria

La crisi dei mutui Sub-prime, partita dagli Stati Uniti, aveva trascinato sull’orlo del baratro il sistema finanziario mondiale creando i presupposti di una terribile recessione. Si apriva così la prima grande crisi del capitalismo dopo quella del 1929. Il fiore all’occhiello dello strapotere americano e del suo pensiero unico crollavano rovinosamente sotto lo sguardo perso di finanzieri demiurghi, apostoli di teorie economiche e di equilibri di potere che sembravano inscalfibili. Per anni questi personaggi si erano convinti che l’economia e la finanza, lasciati liberi di esprimersi a livello planetario, avrebbero creato ricchezza infinita. L’importante era non intromettersi: il lassez-faire doveva essere assoluto. Gli stati, cariatidi del secolo scorso, erano visti come una presenza inutile e fastidiosa. Il loro compito era piuttosto quello di smussare tutte quelle barriere che impedivano la piena espressione dell’economia di mercato. L’Unione europea stessa, coagulo di stati in una transizione sempre rimandata verso una nuova entità politica sovranazionale, pur essendosi dotata di una moneta comune, l’euro, appariva svuotata. L’opera di Jean Monnet, di De Gasperi, di Adenauer ma anche di Mitterrand, di Kohl e di Delors era soppiantata da logiche che portavano piuttosto a preferire le aperture dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) ai costosi lacci del welfare del Vecchio continente.

Le banche centrali e il laissez-faire

Eppure, l’improvvisa crisi della domanda mondiale, che ha fatto seguito al fallimento della banca d’affari Lehman Brother, nel settembre 2008, e il conseguente pericolo di deflazione, sono stati scongiurati grazie all’intervento degli stati e, soprattutto, delle banche centrali. Tassi a zero o negativi e interventi monetari straordinari (Quantitative Easing) sono gli strumenti che hanno tenuto in piedi il sistema in questi ultimi dieci anni, dimostrando chiaramente che né l’economia né la finanza possono essere totalmente abbandonate a sé stesse. Ne erano pienamente coscienti Ben Bernanke e Yanet Yellen, che si sono susseguiti alla presidenza della Federal Reserve, come pure Mario Draghi della Banca Centrale Europea (BCE), sostenuti dalle analisi della Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI). Questi funzionari di alto grado si sono ritrovati ad occupare il vuoto che la politica non voleva o non sapeva assumere. Loro, per ruolo istituzionale, avevano la capacità di decidere velocemente e reagire ai cambiamenti che l’evoluzione della Grande crisi richiedeva. I loro interventi sembravano avere esclusivamente l’obiettivo di guadagnare tempo, quel tempo necessario alle lunghe elaborazioni dei compromessi propri della politica. L’operazione consisteva nell’inflazionare gli asset finanziari in attesa che la politica trovasse la forza di rivedere l’economia reale e gli equilibri internazionali. Se inizialmente l’attività delle banche centrali si situavano nel solco delle linee monetariste che hanno caratterizzato il passato recente delle teorie economiche, il mainstream, piano piano le stesse banche si sono scoperte ad agire in territori inesplorati, senza un vero sostegno teorico. Draghi stesso più volte ha manifestato la necessità di andare oltre, attraverso nuovi percorsi di riflessione, compresi quelli della Modern Monetary Theory, spesso bistrattata. Il timore che il sistema finanziario funzionasse al limite del sostenibile, flirtando con bolle finanziarie e smoderati indebitamenti da parte di individui, stati, aziende, è una preoccupazione che si insinua costantemente nell’obbligata foga decisionista dei responsabili degli istituti d’emissione. Quali attrezzi utilizzare se una nuova crisi simile a quella del 2008 si ripresenta? Ma c’è anche una costatazione che emerge parallelamente al gonfiarsi degli indici azionari: se tutta la massa monetaria iniettata nel sistema non riesce a creare inflazione nell’economia reale, forse c’è dell’altro. Forse stiamo entrando veramente in una nuova era che le banche centrali stanno finanziando. Non stanno guadagnando tempo solo per permettere alla politica di decidere. Stanno tenendo in piedi il vecchio apparato produttivo basato sul petrolio mentre uno nuovo, de-carbonizzato e digitalizzato, sta emergendo.

Digitalizzazione ed energie rinnovabili

Digitalizzazione ed energie rinnovabili sono la risposta combinata e necessaria al cambiamento climatico in corso. È dalla fine degli anni ’80 che, lentamente, matura la presa di coscienza che il pianeta terra può essere distrutto dall’attività umana. Ma è molto probabilmente la globalizzazione, con l’emergere di una nuova potenza planetaria, la Cina, e con essa una miriade di nuovi stati “industrializzati”, ad esasperare la capacità di sopravvivenza del pianeta. L’assoluta originalità della nostra era si riassume nel termine Antropocene: “Si tratta – scrive Jeffrey D. Sachs - della nostra attuale epoca geologica, un’epoca senza precedenti nella quale i cambiamenti fisici della Terra – clima, biodiversità, struttura chimica – sono determinati principalmente dalle attività umane”. [2]

Il mondo delle telecomunicazioni prima, e digitale poi, si muove parallelamente all’espansione di nuovi centri produttivi mondiali, li accompagna e li rafforza. I progressi delle tecnologie digitali che ruotano attorno ad hardware, software, reti informatiche, per confluire nelle intelligenze artificiali, sono l’essenza stessa della trasformazione del mondo produttivo, sociale e di governance. Non si tratta certo di tecnologie inedite. Sono ormai più di cinquant’anni che le imprese utilizzano computer. Nel 1982 la rivista Time definì il computer “Macchina dell’anno”[3]. E già all’inizio del nuovo millennio, nel 2001, scoppiò la bolla del NASDAQ che, con troppo anticipo, scontava la capacità invadente e rivoluzionaria delle nuove tecnologie. Allora non si era capito che questi strumenti avevano bisogno di maturare, non solo di per sé stessi, ma anche nella capacità delle persone di accettarli, conquistarli, prima di renderli parte implicita del loro divenire. Forse questa fase, umanamente lenta, ha impedito una reale presa di coscienza della trasformazione epocale in atto. L’economia liberale, il mainstream, non ha ritenuto necessario ripensarsi, prigioniera dell’assunto che il laissez-faire avrebbe risolto ogni problema, lasciando quindi ai banchieri centrali il compito di adattarsi, senza bussole teoriche, alla complessità della trasformazione tecnologica, sociale e geopolitica. Nella loro attività sono stati aiutati dalla capacità deflattiva delle nuove “Macchine” e dal libero commercio internazionale che comprime i costi di produzione.

Geopolitica dell’energia

Questo contesto di bassa inflazione e di minaccia ambientale ha stimolato l’emergere di nuove fonti energetiche, sostenibili, che hanno trovato linfa nei bassi tassi d’interesse e nella capacità di razionalizzarne la produzione grazie alle reti informatiche e all’intelligenza artificiale. Ai suoi esordi la scommessa ecologista era soprattutto appannaggio di correnti di pensiero che si volevano prevalentemente alternative al sistema capitalista. Ma con il tempo la ricerca di nuove fonti di energia si è imposta sia come risposta al timore che il petrolio si stesse esaurendo, sia come percorso necessario per contenere il surriscaldamento della Terra, sempre più evidente e problematico. I riflessi sulla geopolitica all’approssimarsi della fine dell’era del petrolio sono importanti perché coincidenti con la ricerca di affermazione in un nuovo equilibrio di potenza planetario che passa dal controllo della vecchia energia mentre la nuova si fa strada. E anche la maniera di gestire il potere assume forme che si distanziano dal disegno liberaldemocratico del dopo guerra fredda. Il nuovo equilibrio planetario in definizione crea nuovi perdenti e vincenti sia fra stati, sia all’interno degli stessi. Torna il fascino dell’uomo forte chiamato dal partito o direttamente dal popolo a prendere quelle decisioni globali, ma anche opportunistiche, con quell’immediatezza difficilmente pensabile nei sistemi democratici. Con l’uomo forte e il partito forte la Cina è passata dallo stato di paese emergente a potenza mondiale in meno di trent’anni. La Russia di Putin si è lasciata alle spalle le umiliazioni del dopo guerra fredda. La Turchia di Erdogan è tornata a sognare la grandezza dell’impero ottomano. E gli Stati Uniti, con la consapevolezza di non essere più potenza assoluta, ma relativa, si sono affidati a Donald Trump. Fra le grandi potenze l’Unione europea è l’ultimo avamposto della democrazia liberale e incarna un grande progetto di pace nato dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Si tratta però di una costruzione in divenire, frenata al suo interno dai paesi membri e all’esterno dalla competizione internazionale interessata agli oltre 350 milioni di consumatori che rappresenta, ma non alla sua dimensione politica.  Proprio questo suo essere e non essere rende l’UE un cantiere libero per l’elaborazione di nuovi approcci alla società, alla geopolitica, all’economia, alla finanza e all’ambiente. La sua esistenza è però in pericolo, minacciata dalla sua inconsistenza, facile preda del Coronavirus. Ma questo virus, che richiede ai politici tempi di reazione immediati per contenerne l’espansione, obbliga anche le popolazioni all’inattività, quindi ai tempi lenti, nei quali l’Unione europea si trova più a suo agio.

La prima pandemia della globalizzazione lascerà un segno profondo. La dinamica propria del virus va analizzata perché è il veicolo del cambiamento. C’è un aspetto psicologico, che riguarda il recupero dell’idea del tempo, riscoprendo che può essere lento. E la lentezza porta altri valori, come ha scoperto il giovane protagonista de La montagna incantata. Con questa nuova chiave di lettura si può rivedere il significato della fine della guerra fredda, la storia non si è fermata. Al contrario una nuova geopolitica emerge. I nuovi riassetti del mondo vengono ricalibrati dopo la guarigione dell’infezione. È l’emergenza di una nuova superpotenza, la Cina, e la transizione energetica dal petrolio alle fonti rinnovabili il cuore del cambiamento. La tecnologia, la digitalizzazione, sono gli acceleratori della trasformazione, che ci stavano allontanando da una concezione globale del tempo. L’Unione europea, incompiuta, potrebbe essere la vittima più importante del Coronavirus. Ma allo stesso tempo la sua incompiutezza le apre l’opportunità della flessibilità. La reazione alla malattia può, risvegliando gli anticorpi che l’hanno definita negli ultimi settant’anni, portare ad una risposta globale, sostenibile con l’ambiente e con i diritti umani, collocandosi nel sogno dei padri fondatori, da Jean Monnet a Jacques Delors, passando per Mario Draghi.

 

[1] Thomas Mann, La montagna incantata, ed. Corbaccio, 2017, 700 p.

[2] Jeffrey D. Sachs, L’era dello sviluppo sostenibile, Università Bocconi Editore, Milano, 2015, p. XII.

[3] Erik Brynjolfsson, Andrew McAffee, La nuova rivoluzione delle macchine, Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, Universale Economica Feltrinelli/Saggi, Milano, 2017, p.17.