In occasione del Summit delle Nazioni Unite sul clima, tenutosi a New York, 87 grandi imprese, con un capitale totale pari a 2,3 trilioni di dollari e con emissioni dirette annuali equivalenti a 73 centrali a carbone, hanno affermato che si allineeranno alle raccomandazioni degli scienziati per limitare gli effetti negativi del cambiamento climatico.
Rispondendo all’appello lanciato a giugno da un gruppo di aziende, società civile e esponenti politici dell’ONU, queste imprese, che complessivamente contano 4,2 milioni di impiegati in 28 settori con sede in 27 nazioni, hanno dichiarato di volersi impegnare per inserire le misure auspicate dalla Science Based Targets Initiative (SBTi) nelle loro politiche e strategie. La SBTi, che nasce dalla collaborazione tra CDP, organizzazione che monitora le emissioni delle aziende private, Patto Mondiale delle Nazioni Unite (in inglese, United Nations Global Compact), WWF e We Mean Business Coalition, si propone di offrire alle aziende le linee guida per conformarsi al piano di azione adottato alla Conferenza di Parigi sul Clima (COP21), intenzionata a limitare il riscaldamento globale ad 1,5° C e a ridurre a zero le emissioni di gas entro il 2050.
Una prima parte delle società aveva aderito alla campagna, denominata “Business Ambition for 1,5° C – Our Only Future”, già a luglio ed in una ventina di esse hanno sin d’ora messo in atto provvedimenti per limitare le emissioni di gas serra (AstraZeneca, BT, Burberry Limited, Deutsche Telekom AG, Dexus, Elopak, Hewlett Packard Enterprise, Intuit, Levi Strauss & Co., L’Oréal, Schneider Electric, SAP, Signify, Sodexo, The Co-operative Group e Unilever).
Sul versante opposto, la CDP ha pubblicato nel 2017 un rapporto nel quale punta il dito contro le 100 aziende che inquinano di più e sono responsabili del 71% dei gas serra frutto dell’attività umana. Si tratta soprattutto di compagnie petrolifere e minerarie. In cima alla classifica, dopo il governo cinese, che con la produzione di carbone ha causato da solo il 14,32 % delle emissioni globali di gas serra, si trova la saudita Aramco, con il 4,5 % delle emissioni globali. Dietro ci sono la russa Gazprom (3,9%) e la National Iranian Oil (2,3%). Al quinto posto, prima tra le compagnie occidentali, c’è la statunitense ExxonMobil, con il 2 % delle emissioni.
Per quanto concerne il finanziamento della lotta contro il cambiamento climatico, il settore privato gioca, anche in questo caso, un ruolo fondamentale. Diversi studi dimostrano che gli investimenti privati sono in grado di mobilitare molte più risorse rispetto ai governi. In quest’ottica, la finanza sostenibile può diventare uno strumento importante al servizio di coloro che intendono partecipare attivamente alla transazione verso un modello economico più sostenibile da un punto di vista ambientale. Ma come può l’investitore contribuire a migliorare il clima?
Tra i prodotti finanziari a disposizione sono di particolare interesse i green bond. Si tratta di titoli di debito associati al finanziamento di progetti specifici con ricadute positive in termini ambientali, ad esempio nell’ambito delle energie rinnovabili, nella gestione sostenibile dei rifiuti e delle risorse idriche, nella tutela della biodiversità, etc. Il mercato dei green bond negli ultimi anni ha conosciuto un incremento esponenziale. Inizialmente le obbligazioni erano emesse in prevalenza da organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale e la Banca Europea degli Investimenti, poi sul mercato sono arrivati anche titoli emessi da singole aziende, municipalità e agenzie statali.
A proposito delle gestioni cosiddette “passive”, è sempre più ricca l’offerta di ETF che replicano indici low carbon: questi ultimi includono titoli a minor intensità di carbonio rispetto al benchmark di riferimento, riducendo così l’impronta di CO2 complessiva del portafoglio. Le metodologie di composizione degli indici possono incentrarsi sulla strategia delle esclusioni, eliminando i settori più inquinanti dagli investimenti oppure su un approccio “best in class”, che all’interno di ciascun settore seleziona le aziende in grado di gestire più efficacemente i rischi/opportunità legati al cambiamento climatico. Tra i migliori ETF del settore va segnalato il Lyxor green bond – LU1563454310, che replica il Solactive Green Bond EUR USD IG Index. Per essere inserite nell’indice le obbligazioni devono essere “verdi”, vale a dire che i titoli devono raccogliere capitali dedicati esclusivamente al finanziamento di determinati progetti focalizzati sulla diminuzione delle emissioni di gas serra e sull’aumento dell’adattamento alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Oltre a ciò, le emissioni devono essere certificate dalla Climate Bonds Initiative, un’organizzazione il cui scopo consiste proprio nella vigilanza dei green bond.
Infine vi è l’impact investing, una strategia di finanza sostenibile particolarmente idonea per contrastare i cambiamenti climatici, poiché ha come obiettivo quello di innescare una transizione verso un’economia a basse emissioni, con un ritorno sociale ed ambientale misurabile. Si tratta di investimenti in imprese, organizzazioni o fondi nell’ambito, ad esempio, della microfinanza, sia in paesi emergenti sia sviluppati. Il Global Impact Investing Network (GIIN) pubblica annualmente un rapporto sulle iniziative in tal senso. Per quanto concerne la salvaguardia nell’ambiente, la Convenzione ONU per Combattere la Desertificazione (UN Convention to Combat Desertification) e Mirova hanno promosso il Land Degradation Neutrality Fund, un fondo che intende riqualificare 12 milioni di ettari di terra compromessa ogni anno per mitigare il cambiamento climatico e favorire la biodiversità.